A quale canzone pensi se ti dico appocundrìa?
Ho scritto ed editato il romanzo ascoltando quasi esclusivamente i Cigarettes After Sex (non contemporaneamente però, perché sono incapace di fare le due cose insieme, quando scrivo voglio il silenzio assoluto). In particolare, se dovessi sceglierne una sola, ti direi “John Wayne”. Bonus: “Appocundria” di Pino Daniele.
Deborah D’Addetta ha scritto un libro che si intitola Maleuforia: che cos’è, che odore/sapore/colore/texture ha, e – secondo te – qual è il touch point con l’appocundria?
A gennaio del 2024, prima che uscisse il romanzo, ho scritto un pezzo sul colore della malinconia per la rivista Kairos.
In quell’articolo spiegavo che, culturalmente, il colore a cui più spesso pensiamo quando ci sentiamo giù o depressi o avviliti è il blu. Non per niente, si dice blue monday o I’m feeling blue, in inglese, per esprimere sconforto. La maleuforia, come sentimento che rimane in bilico tra gioia e dolore, non può essere solo blu.
Il colore che le ho assegnato è il viola, il colore figlio del blu e del rosso, concettualmente quindi, della tristezza e della passione. Inoltre, è il colore di certi tramonti e il tramonto è malinconico per definizione, perché il sole muore e muore anche un pezzo della nostra giornata. È il momento del raccoglimento, dei pensieri elevati.
Se dovessi scegliere un odore, direi l’odore della benzina. Io lo trovo un profumo estremamente evocativo, quasi la causa di un piacere fisico. La benzina o la cipria che, all’opposto, sottolinea la natura evanescente di un sentimento come la malinconia.
Il sapore sarebbe qualcosa che ricorda l’infanzia, come una pastina in brodo oppure una torta fatta in casa.
La texture assomiglia al velluto, ai broccati antichi, un po’ polverosi.
Ciò che la maleuforia ha in comune con l’appocundria è la sua indefinibilità: idealmente, per me, la prima è traduzione italiana della seconda, che affonda nel dialetto napoletano, come potrebbe essere corrispettivo della saudade o dello spleen. Hanno lo stesso scopo, cioè quello di obbligare la persona che prova maleuforia o appocundria a indagare se stessa, ma la differenza sta nell’origine:
La maleuforia te la vai a cercare, l’appocundria ti capita quando meno te lo aspetti.
Raffaele è un ragazzo napoletano dai capelli lunghi. Mentre leggo Maleuforia ho sul comodino (da sempre, in realtà) “Donne che corrono coi lupi” della scrittrice e psicoanalista statunitense Clarissa Pinkola Estès; lei scrive: «Siamo pervase dalla nostalgia per l’antica natura selvaggia. Ci hanno insegnato a vergognarci di un simile desiderio. Ci siamo lasciate crescere i capelli e li abbiamo usati per nascondere i sentimenti. Ma l’ombra della Donna Selvaggia – l’ombra che ci trotterella dentro – ancora si appiatta dentro di noi».
“Donne che corrono coi lupi” è la bibbia di chi va cercando la propria vera natura selvaggia e di chi non si arrende per quanto possa fare paura, e per quanto possa essere distruttivo rispetto a ciò che è sempre stato. Fa paura perché quello che si cerca è la verità su di sé e noi – in una società in cui il corpo deve essere nascosto nei propri difetti (invece che, proprio lì, esaltato) e in cui il corpo deve essere taciuto e ignorato nei propri desideri (invece di rincorrerli e ascoltarli) – non siamo abituati. O meglio, siamo stati nei secoli violentemente disabituati.
Raffaele ha i capelli lunghi e allo specchio può vederla: quella natura istintiva e dannatamente femminile che gli trotterella dentro.
È qui, no(?), è qui che nasce la “fitta di nostalgia”.
Sempre lui dice a pagina 23 di Maleuforia:
«Non bastava più l’occhiata furtiva, il suo affacciarsi timido o capriccioso: io volevo vederla intera, vedermi intera, volevo spaccare, stracciare, acciuffarla per i capelli e dirle di restare – tu, basta nascondersi! – edificare un santuario e un culto solo nostri, che fossero sacri o blasfemi non faceva differenza».
Raffaele sente di doversi schiudere, “doverla schiudere” (proprio così dice). Ma come si fa? E se iniziamo proprio da questo: chiamarsi col proprio “veronome”?
Tu nel libro lo scrivi tutto attaccato, è una parola unica. E anche qui sembra venirci in contro Clarissa Pinkola Estés: «conoscere il vero nome di qualcuno significa conoscere il percorso esistenziale e gli attributi della sua anima».
Quanto è stato salvifico per Raffaele nominarsi, nominarla, incontrare Lèmon, l’altra faccia di sé, un’altra forma d’essere dalla quale sente di essere finalmente rappresentato? Quanto il ricorrere al potere del nome è stato violento ma definitivo?
Dare il nome corretto alle cose significa farle esistere.
Mi servo di un esempio banale ma efficace: se io puntassi il dito contro un pezzo di pane e dicessi “latte” quanto sarebbe frastornante, sia per me che per chi mi deve vendere quel pezzo di pane? Lo stesso sfasamento lo prova una persona che nasce uomo ma si sente donna (o il contrario): in quei casi, il nome maschile non corrisponde, non si allinea.
Lo scarto è la causa del dolore e, se ci pensiamo, una delle primissime cose che le persone fanno quando capiscono di voler abbracciare la propria vera natura è cambiare nome. Gli uomini che si sentono donne assumono nomi femminili, così come le donne che si sentono uomini assumono nomi maschili. In questo senso, il primissimo ma coraggioso passo che si formalizza al mondo è proprio di tipo anagrafico.
Lèmon nasce Raffaele, ma Raffaele non si sente. Il nome è una scusa, è l’elemento più facile da scardinare e il suo cambio resta ancora una sorta di liberazione. Piccola, ma pur sempre una conquista a cui nessuno deve dire grazie. Allo stesso modo funziona la questione dei capelli: da sempre, i capelli lunghi sono simbolo di femminilità, oggetto di seduzione (non che le donne coi capelli corti non siano sexy, sto parlando per ciò che ci racconta la società) e dunque, per un ragazzino senza esperienza, in lotta contro se stesso, uno dei primi elementi di dissonanza – oltre al nome – sono proprio i capelli.
Raffaele però non li ha corti come sarebbe consono per un ragazzino di tredici anni, ma lunghi. La nonna, in un atto estremamente violento non solo per il gesto fisico, ma soprattutto a livello simbolico, glieli taglia con delle forbici da cucina. In questo modo crede di negargli una libertà, di mettere a tacere le voci. La violenza dell’atto, oltre che un abuso vero e proprio e un trauma, sta a sottolineare la critica a un sistema che dice “questo sì e questo no”, che demonizza tutto ciò che non viene ritenuto conforme.
La ribellione di Raffaele non si origina solamente in quel momento – nel momento in cui viene defraudato dai suoi capelli – ma anche quando capisce che dentro di sé ha qualcosa che deve cavare fuori. O meglio, qualcuno, cioè Lèmon, la sua sé in forma di femmina (cito testualmente). Il potere che acquisisce quando scopre il suo veronome, appunto Lèmon, gli schiude le porte del coraggio: se ha un veronome, se può chiamarsi da donna, allora può anche essere donna, e il fatto che nel bordello di Donna Sofia lo spingano a trovarlo in fretta, accettandolo poi unanimemente, sposta il punto di vista da un luogo di rinnegamento – quello della casa d’infanzia – a un luogo di accoglienza, nonostante la contraddizione (perché parliamo di un bordello, in fondo).
E riprendendo il testo di Clarissa Pinkola Estés che hai nominato, la natura selvaggia in un luogo come il bordello è pura sopravvivenza: passa non solo attraverso il corpo e la sua mercificazione, ma anche attraverso la lotta per imporre i propri desideri, le proprie voglie. Alcuni dei personaggi del romanzo vogliono fare quella vita, vogliono avere a che fare coi clienti. Questo è un desiderio che va rispettato, quando è totalmente libero e ponderato.
Così Lèmon: all’inizio si prostituisce perché è l’unico modo che ha per sopravvivere e scoprirsi, ma dopo, quando avrebbe potuto vivere nell’agiatezza, sceglie volontariamente di tornare in strada. Se non è una natura selvaggia questa, selvaggia nel senso di animalesca, non so cosa lo sia.
Ritornare interi, nominarsi e conoscersi, per venire con dolore alla luce e scoprire a chi e a che cosa si appartiene.
Ma perché parlavo di nostalgia, che è poi il tema centrale di questa riflessione? Perché, nel momento in cui un’anima sceglie di unirsi a un’altra forma d’essere, bisogna necessariamente che muoia qualcosa. Insomma, bisogna morire per darsi alla luce. E di questa morte il corpo sapeva già, perché è stata proprio quella “fitta di nostalgia” ad aver acceso il fuoco.
In Maleuforia mi ha colpito una frase, breve ma essenziale, nella quale io personalmente racchiudo tutto il romanzo: “pareva già femmina” (pronunciata da Maria naturalmente nei confronti di Raffaele). Tralasciando la questione del giudizio sul corpo dell’altro (perché questo è un altro tema), mi concentrerei sull’avverbio “già” che indica che, nel momento in cui si parla, o di cui si parla, un fatto è ormai compiuto o sta compiendosi o è accaduto da poco (definizione ripresa dal vocabolario Treccani).
È già accaduto o sta accadendo in questo momento.
Lèmon è – praticamente – già qui; un’altra parte di sé, quella che si era sempre nascosta e si era fatta ammirare di sfuggita allo specchio, è arrivata e non ha alcuna intenzione di tornare sottoterra. Per qualcos’altro quindi, “è tempo di andare”, di fare spazio, di non vivere più in questo mondo.
Essere già significa – quindi – non essere più, non è forse così? È proprio questo gioco di parole a venirmi in mente quando penso alla nostalgia: essere già (qualcosa) significa non essere più (qualcos’altro), e nemmeno essere ancora. Ed è probabilmente proprio per questo che Raffaele aveva “gli occhi dell’appucundria”: come si fa a non averli quando sei già, ma non ancora? Quando sei già ma non più?
La nostalgia ti finisce necessariamente negli occhi.
A Napoli si chiama appocundria e appartiene a tutti coloro che avvertono nel corpo delle memorie (appunto le memorie corporee) che comunicano con noi attraverso le sensazioni. Sono memorie feroci e decisive nel caso di Lèmon ma ci sono di quelle lievi – quasi attraenti e garbate – che ci accompagnano durante tutto il giorno e che ci accennano – sempre nell’unico linguaggio che possono, quello delle emozioni – a qualcosa che è stato chissà quando, ma forse non è stato mai.
A qualcosa che si aspetta da tutta la vita e si aspetterà per sempre, senza sapere bene il perché; senza sapere bene cos’è.
Napoli la respira l’appocundrìa, Napoli è l’appocundria: Napoli – come me e ciascuno di noi – è già, non è più, non è ancora.
Com’è Napoli in Maleuforia?
Credo che la morte simbolica di una parte di noi quando si affronta una metamorfosi – e uso di proposito questa parola invece di “trasformazione” o “cambiamento” – sia una tappa obbligatoria. È chiaro che questa consapevolezza sia dolorosa e provochi nostalgia: tutto sommato, stiamo lasciando una strada vecchia per prenderne una nuova e le incognite spaventano sempre.
Quel “pareva già femmina” pronunciato da Maria è importantissimo per due ragioni: la prima, dà il metro di giudizio a Raffaele per poter misurare quanto effettivamente le sue sensazioni siano vere e non solo frutto di un capriccio o di una fantasia adolescenziale; e inoltre, regalano al lettore il punto di vista proprio del lettore, ovvero di chi osserva da fuori in modo oggettivo.
Maria vede Raffaele per la prima volta e capisce tutto subito. Quella maleuforia, quei modi di fare, quello sguardo afflitto, sono propri di una persona che non è quello che sente di dover essere, eppure non ha i mezzi per definire le cose, i sentimenti, le sensazioni, l’anatomia di un corpo che non corrisponde ai propri desideri.
E dunque è ovvio che Raffaele fosse già femmina, solo che quella femmina era rinchiusa in un involucro estraneo. Faccio l’esempio della matrioska: il corpo maschio di Raffaele è lo strato della bambola esterno; all’interno di quel primo strato vi sono altre bambole, sempre più piccole ma identiche alla prima, che scalano progressivamente di dimensione. Nel caso di Raffaele e delle persone come lui, non solo il corpo di femmina è racchiuso dentro uno strato esterno completamente opposto, ma è anche di forma, colore, texture differenti.
È come mettere un quadrato in un cerchio. I punti di contatto – gli spigoli, che cito nel romanzo – creano fastidio e dolore. E come una figura geometrica rigida che non è malleabile, anche Lèmon non è malleabile: o esce così com’è o muore. Non dubito che, in un altro multiverso, se io avessi scritto un romanzo diverso, nel caso in cui Lèmon non avesse avuto sbocco, Raffaele sarebbe senz’altro morto molto prima, ancora da ragazzo. Si sarebbe tolto la vita. E non lo dico per romanticheria o enfasi, la cronaca è piena di ragazzi e ragazze incompresi che si suicidano per questi e altri motivi.
Tornando all’appocundria e a Napoli, sia essa che la maleuforia sono sentimenti estremamente ammalianti.
Quasi un canto di sirena.
Napoli, come città eternamente incompresa (proprio perché tutti credono di conoscerla) è il regno della maleuforia e dell’appocundria: chi è che davvero può dire di poterla capire? Io credo nessuno. Forse ci sono riusciti autori e autrici come Raffaele La Capria e Matilde Serao e non un caso che i loro testi siano profondamente malinconici, pregni di fatalismo e compassione, ma anche di critiche aspre e appassionate frutti dell’amore per un luogo così peculiare.
Napoli è una città che ha duemila anni, è normale che sia costantemente in trasformazione: si tratta, anche nel suo caso, di sopravvivenza, di scegliere cosa uccidere e cosa salvare. Nel romanzo, la mia personalissima Napoli è un luogo di spazi chiusi: la storia è ambientata negli anni ’80, un periodo di tempo che vedeva una città molto diversa da quella che conosciamo oggi. In pochi anni ha cambiato quasi totalmente faccia, ma io avevo bisogno che le vicende di Raffaele sottolineassero la natura conturbante e anche animalesca del luogo in cui si svolgevano.
Dunque abbiamo da una parte i meandri oscuri del centro storico, i sottopassaggi battute dalle prostitute, i bordelli, le piazze di spaccio, dall’altra la soavità di Posillipo, a evidenziare un altro sfasamento, quello tra la città crepuscolare e la città splendente. Questo sfasamento è il cuore della maleuforia, sia quando parliamo di luoghi che di persone.
Ci sono cambiamenti di essere più evidenti di altri, più feroci di altri, eppure tutti sono accomunati dal desiderio di verità.
Raffaele siamo tutti noi quando ci fanno sentire sbagliati, quando ci limitano a sensazioni approvate, quando vogliono tagliarci i capelli. Raffaele sono io quando allo specchio mi accorgo di una scintilla nascosta che, se nominata e accolta, farebbe rumore, disturberebbe qualcuno, chi è abituato a vedermi in un modo soltanto.
A Raffaele, nelle prime pagine del libro di cui è il protagonista, come Deborah ci ha raccontato, la nonna ha tagliato brutalmente i capelli. Ha eliminato la sontuosità delle lunghezze di una chioma per tentare di far rientrare “l’errore”, “la sproporzione”, per nasconderlo e per nasconderla perché, come abbiamo detto, lei (Lèmon) “era già”.
Lèmon, così, torna dall’esilio (come si può essere esiliati solo nelle profondità di un essere umano) e incontra Raffaele. È stato quel desiderio di verità a cui accennavamo prima a farli incontrare, e a far sì che il corpo (che fino a quel momento era un fatto pubblico, un fatto familiare) smettesse – una volta per sempre – di disconoscere ciò di cui è capace. Ciò per cui è al mondo. E si mettesse – perciò – a scoprire, a riscoprire. A scoprirsi e riscoprirsi.
Grazie Deborah per la tua gentilezza.