È quando trovi le parole il minuto dopo. Quando il tuo corpo perde l’alibi del pudore, e nello stesso tempo la chance della bellezza.

Ricordo che all’inizio Napoli l’ho vissuta come da sopra un roof mediterraneo. Anche attraversandola a piedi restavo in superficie, sull’acqua a guardarmi, a guardarla, a guardarci: giù, cioè dentro di lei, non ci andavo tanto spesso. È un po’ come quando si ha paura di incontrare sul serio una persona e superare il ferro battuto delle ringhiere acconciate con vasi di lavanda.

Ecco, Napoli l’ho amata piano, disincontrandola ogni volta. E tutt’oggi che ho meno paura di “scendere”, di andare incontro vestita leggera, torno sempre in terrazza a sporgermi da lì, a tendermi da lì con tutto il collo che posso. Torno sempre, insomma, a guardarla da più lontano, giusto un passo indietro, quasi che io aspetti che mi chiami – che mi cerchi – e, intanto, sto a sentire il sale in bocca da quassù.

Un richiamo, probabilmente sì, è stato un richiamo. Perché questo posto parla la lingua mia senza bisogno di chiarirsi; perché ha la capacità di lasciarsi tutto vivere e di lasciarmi intanto andare, non dimenticandomi. Ci hai mai pensato? Ha la capacità di farti credere che sì, forse un pò, quasi ti stava aspettando. E quasi ti aspetta ancora, quando vuoi, quando credi; mentre tu – senza quasi – già l’aspettavi. Già, aspettavi.

L’Apocundrìa credo sia proprio questa tenerezza selvaggia che appartiene, come sensazione manifesto, ad una tarda gioventù a picco sul mare; la gioventù senza tempo di chi non si lascia mai trovare davvero, da nessuno – per gioco o per vergogna chissà -, ma che si sporge per farsi intanto vedere, con l’anema in bilico tra resa e meraviglia. 

Si tratta quindi della nota nostalgica – che abbiamo qui tra le costole ma anche diffusa, già altrove, a volte lieve e assai reale – che ci caratterizza culturalmente e che, più che portarcela addosso come un segno, la indossiamo con tutta grazia. Anzi, è innanzitutto questa città-camicia a farsi indossare, ma ci lascia talmente liberi che non ce ne siamo nemmeno accorti: da mo’ che l’abbiamo addosso. 

Napoli per me è quel capo Basic che mi salva, che mi rappresenta; è come una camicia bianca su quei jeans regular. È una giacca dal taglio maschile che sfilo a mezzogiorno e appoggio un po’ così sulle spalle alla sera. Sulle sue. Sì, come una giacca, che nelle tasche – tra le chiavi, gli anelli sciolti e i post-it – porta qualcosa di me e dei miei incontri. Qualcosa pure dei miei disincontri.

A proposito di disincontri, mi è successo di nuovo alla Feltrinelli che dà su piazza dei Martiri qualche giorno fa. Non ero lì per Ernesto Franco ma per l’ultimo Rachel Cusk, eppure è stato “Usodimare” a farsi avvertire (e mi sorprendo ancora quando un libro chiama da uno scaffale che non corrisponde nemmeno alla sua giusta collocazione, dove – messo lì un po’ spaesato – attira l’attenzione in una qualche maniera sconosciuta, come per risvegliare un pensiero, come per dirmi Cara, è tutto qui):

“Nenè e Usodimare sono legati da una serie di disincontri. Donna Marina non sa dirlo altrimenti. Il disincontro – cerca di spiegarmi – è l’incontro che sarebbe potuto avvenire. Anzi, che sarebbe dovuto avvenire. Ma che, per un’imperscrutabile ragione, non si è dato. Si era nello stesso posto, ma per millesimi di secondo diversi. Si era nello stesso minuto, ma in due stanze lontane. Si è sentita la stessa emozione, ma in due epoche della vita dispari. L’incontro, in qualche modo, c’è, ma non avviene del tutto. È quando trovi le parole il minuto dopo. Quando il tuo corpo perde l’alibi del pudore, e nello stesso tempo la chance della bellezza”.

Negli ultimi mesi mi tormentava l’idea di aver disimparato ad amare mentre mi sono chiesta più volte: che cosa vado cercando per le strade di Napoli per tutti questi anni così insistentemente? Dove sto andando così di fretta, sicura di non tornare indietro? Ma perché non resto un altro po’, ma perché non resti tu piuttosto? Non ho ancora imparato bene ad andare via, ma se provo – intanto – a tornare e vedo se succede?

Forse cercavo pezzi di una vita passata ma a un certo punto non ho avuto più la certezza assoluta di averla vissuta. Forse era diventato un sogno indefinito, ma così personale, o forse solo il ricordo di una foto vintage che non ho scattato io. Probabilmente ero quella in posa, in posa in un tempo scorso.

Oggi sono di nuovo in cambiamento, ho molta paura, non so cosa cerco eppure so cosa vedo. Perché Napoli mi ha presa quando cercavo l’ultima tenerezza possibile – chissà che mi ero messa in testa – o probabilmente cercavo proprio la prima perché ho capito che non c’è mai un’ultima, di tenerezza, e che è possibile, certo che è possibile; sicuro lo è per chi sporgendosi vede tutto eppure non è nulla.

“Chi nasce in una città come questa si abitua a vedere cose come queste. Anche se non lo sa, o non lo vuole ammettere, pensa in una parte dei suoi pensieri che anche i palazzi delle vie, che anche la città, potrebbero un giorno salpare”. 

E se i palazzi possono salpare, ci si potrebbe – quindi – un giorno anche incontrare. Ma domani magari, domani col sole. Intanto teniamoci così. 

ANNARITA GENOVA
ANNARITA GENOVAauthor & founder
Mi occupo di pubblicità e giornalismo e penso che, tra tutte le parole che esistono, solo una viene con me. Me la porto al mare.
«Senza manco ‘o tiempo ‘e ce fá capí».
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