Il “Narciso” di Jago che si riflette nella donna: un attimo prima della metamorfosi
Inaugurata lo scorso anno presso lo Jago museum nella chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi, la scultura che porta il nome di “Narciso” raffigura (appunto) il mitico Narciso piegato nell’atto di guardarsi allo specchio. L’artista contemporaneo Jago lo scolpisce incrociato – in perfetto equilibrio – a una donna che, per i suoi capelli che si allungano verso l’alto, è come immersa nell’acqua; un’acqua che si fa specchio del proprio Io più profondo.
Uno specchio, le estremità che combaciano, un vuoto d’amore
Fermato nel marmo è l’attimo prima della metamorfosi, un attimo ripreso da quella storia antica e tramandata da Ovidio nel suo poema. Questa storia, però, in Piazzetta Crociferi a Napoli è raccontata a una diversa profondità, perché mostra un uomo che si riflette in ciò che più tende a tenere nascosto, in quella parte più profonda del Sé che si chiama Anima e che ha una natura intensamente femminile.
Riprendendolo in breve, il mito di Narciso racconta di un bellissimo giovane che conoscerà la morte nel momento in cui vedrà la sua immagine riflessa nelle acque di una selva, un’immagine che non potrà mai essere sua. Perciò, non gli resterà che consumarsi per amore, fino a trasformarsi in un fiore dai petali bianchi e narcotici. Nel marmo di Jago però il mito si ferma prima, congelandosi esattamente nell’attimo in cui Narciso si specchia, e lo fa in uno specchio d’acqua che porta il volto di una donna, insieme a tutto il resto.
I suoi palmi delle mani, le piante dei piedi e le ginocchia sono – infatti – qui appoggiati a quelli di una donna che regge interamente la figura dell’uomo con il proprio corpo, mentre lo specchio d’acqua esiste, osservando bene, solo nei capelli di lei. La donna è sul fondo, rovesciata rispetto a Narciso, oppone una minima resistenza e fa combaciare perfettamente le sue estremità a quelle di lui. L’associamo allora immediatamente ad Eco, la ninfa che nel mito di Ovidio ne è profondamente innamorata.
Si racconta che Eco tenti di comunicare il suo sentimento ma incontra le barricate difensive di un uomo completamente immerso nel proprio Sé. Eco si sforza, quindi, di comunicare amore a Narciso, ma lui non vuole ascoltare e, alla fine, entrambi si consumano, ognuno a proprio modo, per un vuoto d’amore.
L’Altro è quella terribile superficie riflettente a cui il narcisista si sottrae
Partendo da un racconto mitico e rifrangente come quello di Ovidio, qualcuno (e per qualcuno si intende Freud) non ha potuto che individuare e tratteggiare una realtà psichica che appartiene a colui il quale sfugge da qualsiasi legame. Freud l’ha chiamata – appunto – narcisismo, una realtà “che abita i nostri amori e tutte le relazioni, e che può essere fragile o contundente” (“Arcipelago N”, Vittorio Lingiardi).
La personalità con tratti narcisistici in psicologia, insieme alla considerazione del narcisismo come stile di relazione, ci racconta sostanzialmente di una modalità tutta contemporanea di stare con gli altri e, potremmo aggiungere, di non stare con gli altri, di comunicare, di non (riuscire a) comunicare.
Le relazioni di oggi risultano, infatti, così frammentate e slegate perché l’individuo non si assume più la responsabilità dell’Altro, non lo incontra se non superficialmente. È proprio solo la superficie ciò che egli rimanda al mondo esterno di sé, mentre si accorge dell’altro solo come occasione di specchio per il proprio Io, seppure quello più approssimativo e abbozzato.
Insomma: l’Altro risulta essere quella terribile e immediata superficie riflettente a cui il narcisista si sottrae, un po’ per vergogna, un po’ per paura. Viene – quasi – spontaneo perciò chiedersi: ma non è che siamo tutti un po’ narcisisti – nell’accezione unicamente relazionale del termine (bypassando quella più pericolosamente psicologica e patologica) -, visto che un po’ tutti dipendiamo dall’immagine che l’Altro ci offre come specchio? Visto che ciascuno di noi vive il “dramma del valore di sé” attraverso gli occhi degli altri?
Perché a pensarci è così assurdo e, allo stesso tempo, primordiale incontrare se stessi attraverso un viso, che sia di un altro o il nostro allo specchio.
E se Narciso resta fino in fondo, fino alla metamorfosi (dopo una vita passata a sfuggire dagli altri), tu che fai quando riesci – all’improvviso o anche piano, pianissimo, quasi per caso – a vederla, l’anima? Davvero resti? Sicuro, pure se si muore? Oppure smuovi le acque affinché non si veda più nulla?
Una dolce tensione delle mani che si toccano: dipendenza e riconoscimento
Narciso ed Eco sono entrambi resi nel marmo, dall’artista Jago, attraverso la dolce tensione degli arti che si toccano. I loro corpi lucidi si reggono reciprocamente, immortalati in quell’unico momento che nel mito precede la fine, ma che non è detto che qui, sotto la volta della chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi, non possa portare a un finale diverso.
Presso lo Jago museum assistiamo, in definitiva, al momento del riconoscimento tra un Narciso e una Eco in dipendenza l’uno dall’altro, in un equilibrio sottile che determina, attraverso il contatto tra i corpi bianchi, anche un punto di rotazione intorno al quale il gruppo marmoreo potrebbe perfettamente compiere una rotazione di 180 gradi e mostrare (perché no!) una Eco riconoscersi in un Narciso.
A testimonianza dell’inevitabile reciprocità delle relazioni umane, i capelli di Eco (gli stessi che prima si allungavano verso l’alto come immersi in acqua), ora – immaginando la scultura ruotare – scendono in basso, si tendono verso l’Altro. A qualsiasi rotazione la si guardi, però, si teme che non ci sarà mai modo per i protagonisti di afferrare ciò che stanno guardando, che stanno riconoscendo e che, infine, ameranno fino al collasso. Si teme che, mentre l’una guarda l’altro, questi molto probabilmente non riuscirà mai a vederla.
Così, a pochi passi dal Borgo dei Vergini, proprio nel cuore del rione Sanità, è scolpito nel marmo un momento di riconoscimento che, come ogni storia che si tramandi, non può che riguardare tutti noi e che, invitando l’osservatore a guardare in profondità, fa riferimento al riconoscimento in tutte le sue declinazioni: quello che avviene tra due persone, tra un corpo e un’anima, tra una superficie e la sua profondità, tra un uomo e le sue fragilità.