Furèsta è un album sensuale, che attinge alla sensualità di madre-terra e suona per assecondare ora la fame di libertà, ora la denuncia della violenza, ora il riposo nelle braccia della memoria.
Inserito in una copertina di un chiaro-scuro Caravaggio, Furèsta è l’ultimo album di LA NIÑA uscito con la primavera, la stagione che tutto porta a galla. Si tratta di dieci brani che si rifanno a un immaginario rurale popolato di archetipi, segni e simboli della tradizione, nuove e cicliche vibrazioni, mentre il fuoco creativo che lo regge spazza via tutto.
“Negli ultimi anni ho guardato la mia casa da lontano, ho orientato lo sguardo altrove ed in altri tempi, nel tentativo di comprenderne il senso più ampio e riconoscerla parte di un racconto che ci precede”, così LA NIÑA introduce il suo album, un lavoro di ricerca ad impostazione esoterica e femminile creato a quattro mani con Alfredo Maddaluno.
La ritmica che lo caratterizza non appartiene infatti a questi tempi, e miscela vibrazioni elettroniche ai suoni tribali prodotti dagli strumenti più tradizionali, attraverso cui misteri antichi sembrano risuonare come impulsi, mentre una voce integra, selvatica, avvolta nel suo coro di donne, ci racconta.
Cosa ci racconta? Beh, della battaglia quotidiana di affermazione e di come una ninnananna dedicata alla sé-bambina può non finire mai; del portamento delle donne che accolgono il mistero ballando intorno al palo ardente, un ballo scandito dal trotto dei cavalli, e di come ogni cosa abbia il suo tempo, un inizio e una fine: contrasti assoluti e alte luci.
Credo che il tempo sia infatti il grande protettore di questo album, lo permea e ne è destinazione. La musica di LA NIÑA e di Furèsta, essenzialmente, è una musica che scandisce e onora i cicli del medicamento e della pazienza, ma anche il tempo della ribellione e dell’espressione sfrenata.
Perché è vero, ogni piccola storia acquista un senso nel terreno di una storia più ampia, più profonda. Ogni storia intreccia le radici e si riconosce nella precedente immergendosi in un sistema ciclico in cui ognuno di noi (così come il proprio antenato e così via) ha lo stesso unico bisogno: tornare a casa, all’origine di sé, sempre più vicini a desideri autentici schiacciati ora da quelle necessità quotidiane che, alla fine della fiera, non significano niente.
Dalla tempesta alla ninnananna: non un granello in meno di libertà
L’intro di “Figlia d’ ‘a tempesta” è un colpo secco che zittisce tutto intorno. In questo singolo c’è la violenza, l’arragg ca’ nunn’ arreposa; ci sono sogni rubati, le sorelle non tornate, mai dimenticate, e una donna che mo vuole tutto, lo vuole anche per loro, tutt’ cos’, e cioè non un granello in meno della sua libertà.
“Figlia d’ ‘a tempesta” è un’insurrezione radicale che batte nella Campania Felix, a colpi di tamburi intrecciati a voci di donne così sincrone e ferite che, chi fino ad ora non ha voluto sentire, mò ‘e ‘rrecchie adda arapì.
C’è chi le vuole incinte o spose, ma le donne cantate da LA NIÑA scendono dall’altare cerimoniale, su cui sono messe da secoli, e rotolano giù nella terra insudiciando quel velo.
Emerge invece la grazia dell’appartenenza, anche (e soprattutto) nel dolore, in “Mammamà”, una live session ad impianto corale in cui si esibiscono musiciste dalle voci primordiali, vestite essenzialmente di nero e dei cristalli rilucenti, del bronzo e l’argento di Paola Grande gioielli, secondo la direzione stilistica di Damiano Riccio.
“Mammama’” è stata registrata all’Auditorium novecento ed è un pezzo che vuole dare mostra allo scheletro che c’è sotto l’ ipnotico lavoro, perché quando si scava, quando si cerca la verità cruda, si arriva alle ossa. Per l’acustica e l’armonia che si crea, ascoltandola ho la sensazione di stare lì con loro durante la performance, di essere circondata da una schiera di sorelle che cantano su un cuore ferito, illuso, che ha incontrato una brutale verità.
Il singolo Mammama’ si prende perciò il tempo del dolore e dello sfogo, tant’è che a un certo punto sale, sale indomabile questa agonia, insieme all’incredulità, per poi tracollare direttamente al suolo. Il tempo del dolore è finito.
“Guapparìa” è dichiaratamente il singolo manifesto dell’album, perché è un pezzo che condanna l’ipocrisia, mentre – nel suo videoclip – prende forma ciò che sarà la copertina del disco: il ritratto di LA NIÑA come la Medusa di Caravaggio, dipinta sul tamburello invece che sul disco, e investita dagli stessi chiaroscuri, che rappresentano poi quelli dell’anima.
“Guapparìa” si struttura su una melodia popolare e su un ritornello che fa: senz’ amore nun se canta. Piedi nudi, strumenti a corda e percussione, croci alle orecchie, mentre una denuncia sociale è rivolta a chi vuole da Napoli solo tarantelle e guapparia, mentre si gira dall’atra parte di fronte alle reali sofferenze della nostra città.
“‘O ballo d’e ‘mpennate” si costruisce, invece, sul segmento ritmico del trotto dei cavalli, simbolo di iniziazione e preparazione alla guerra, una guerra che è sempre la stessa e che il presente ha recuperato nelle sue forme.
Il passo del trotto qui si fonde poi con quel “gioioso canto hondo” che mi ritorna alla mente dalla lettura del libro-bibbia “Donne che corrono coi lupi” dell’analista junghiana Clarissa Pinkola Estés, che non può descriverlo in maniera più ammaliante come: “le parole che tornano a noi quando facciamo un’opera di rivendicazione con l’anima”.
“Pica pica” è invece un risveglio dolce, una carezza al cuore, accompagnata da un battito d’ali e dai suoni della natura. Si tratta dell’arrivo di un ricordo, come un seme selvaggio portato dal vento; una memoria che torna dall’infanzia per trasportarci via, chissà dove, ma noi non possiamo volare.
LA NIÑA canta, con la sua chiarissima voce, un ritornello che potrebbe non finire mai, una ninnananna dedicata alla sé-bambina che, se non ripetuta ancora e ancora non rassicura come dovrebbe, non riesce ad arrivare al sonno profondo. Eppure, questo sonno forse arriva, il canto dolce sfuma e, ancora una volta, la natura ci mette le sue note rassicurando così: quando sale la paura di non avere abbastanza tempo, tu pienze a cantà.
Melodie oniriche, intime, cavalcate da una voce che viene da dentro, completano l’album e sono “Ahi!”, “Oinè”, “Tremm” (con Kukii), “Chiena ‘e scippe”, “Sanghe” (con Abdullah Miniawy). Il disco è così anche un mix di culture, forte delle influenze sonore ma soprattutto culturali (tra cui Pasolini, Pascal, María Zambrano e De Simone) di LA NIÑA e si pone, perciò, in una dimensione senza tempo e senza spazio.
In Furèsta infatti non esiste luogo se non nelle urgenti voci femminili che diventano una, e che si insinuano negli sfondi di leggenda e surrealismo, creandoli a loro volta. E il motivo è uno: perché certe cose suonano vere solo se dette così, con la lingua di Napoli, dell’area vesuviana, della nostra terra, tutta, popolata da spiriti inquieti, che hanno “ambre del alma, la fame dell’anima” (per citare ancora l’Estés).
Perché certe cose si dicono nude solo attraverso il linguaggio di una terra-donna natìa che ten’ n’arraggia ca’ nunn’ arreposa.