Allungo un braccio ai suoi capelli pieni zeppi di aria marina, cerco di afferrarli e quando si volta indietro mi accorgo che sto continuando a cercarla come un coglione, anche se è già mia, qui, anche se da qui non si esce. Perché ti dici tua pure se non ci credi? Ma sei proprio sicura che poi non torni?

Salgo in macchina e la trovo al lato di guida, esposta come non mai nella penombra di altri fari, in attesa – lei che è sempre in attesa – e con quel viso scoperto verso di me che non riconosco ma che trovo bellissimo. Chissà se si è pettinata apposta, stanotte.

«Ti ho scritto una poesia o quel che cazzo è. Ma prima consolami, per piacere: sei tu?» le chiedo di getto consegnandole un dubbio, forse troppo stupido forse quasi legittimo, ma sinceramente lo lascio assorbire dalla pelle infantile delle sue guance.

«Ho sete» sospira così ed è distante, non risponde alla domanda. Batte una volta le ciglia ma continua a tendere a me con quel collo infinito che si tiene tra le dita; una manciata di dita che tiene allacciate con alcuni anelli di oro e pietre, così da sempre, come ora.

«Ti porto a bere una cosa?» faccio a quella donna-ragazzina che mi è di fianco e che non mi guarda più perché si cerca qualcosa nelle tasche sottilissime dei jeans che la avvolgono come guanto, mentre si tira su le maniche di una camicia chiara che non so perché immagino l’abbia abbottonata di corsa, e si sistema poi il ciuffo dietro l’orecchio per stare più comoda.

«Sei profondo» mi fa senza nemmeno guardarmi ma continuando ad affondare le dita in un posto troppo stretto. Si sgancia i capelli dall’orecchio e li porta tutti da un lato. Poi mi vede un attimo, ma si ferma lì e mi fa capire che è in superficie che vuole restare, almeno per adesso, almeno per sempre.

«Sono ingrassato. Forse è perché non sto più fumando, per scaricare, non lo so» abbasso lo specchietto e mi passo anch’io una mano nei capelli e in questa timidezza che mi è salita tutta insieme, insieme al vino che ho ingoiato prima di venire. Probabilmente perché lei ha trovato quello che cercava e adesso sta di profilo, e accenna ancora sospiri, che sono attimi, che sono sorrisi, mentre una luce blu lampeggiante investe e dilata i suoi contorni.

«Sei tu?» mi chiede tenendomi d’occhio distrattamente e incendiando l’estremo di una sigaretta, trovata o lasciata sul cruscotto chi lo sa, con l’accendino che ha pescato dai suoi jeans-mondo. Mi fa strano però che nemmeno lei sia sicura che siamo ancora noi, che non siamo già altri, che non stiamo ormai altrove.

«Sono io che non so se sei tu, che quasi mi viene da chiederti come ti chiami» le dico confuso, però a quel punto ride soffiandomi in contro il tabacco, ma io sento invece l’ambra e capisco che sta scherzando. Che non ha dubbi sul fatto che questi due nella notte, questi due stronzi chiusi in un’auto che chissà a chi appartiene, che non resterà parcheggiata a lungo visto che ha i fari accesi, siamo, infine, ancora noi.

«Come ti chiami? Ti riporto a casa o ti va di fare l’amore?» le chiedo poi, un po’ per giocare un po’ perché ho sentito il mare; e un po’ perché per un attimo ho creduto che abbia mosso i fianchi, impercettibilmente, come se stesse pensando alla mia mano risalirle una gamba per fermarsi dove mi stava aspettando.

«Va a quel paese Enea, ma fatti incontrare tra ‘sto buio» dice mentre scende dall’auto come se non fosse decisione sua, come si slegò quella prima volta che in realtà non era la prima, con uno scatto talmente deciso che riesco a vedere solo la sua chioma per poco non impigliarsi nella portiera che le si chiude alle spalle, mentre le luci di fuori tentano tutte di occupare quel posto svuotato di colpo. Parli di ‘sto buio qua?

L’ambra di nuovo mi invade e, ora che non c’è, di nuovo, mi trapassa tra le tempie la memoria di tutte le benedette linee trattenute nel suo viso. Linee vitàcee su grana olivastra. Non può che essere lei, penso riconoscendomi, finché mi sorprendo a sospirare pure io, raccogliendola tra quei lineamenti di vite che rincorro con un pensiero che spinge sempre di più.

Perciò mi libero dalla portiera più vaga di un lenzuolo e la chiamo furioso «Cecilia.», come si chiama una ragazzina impertinente che non capisce dove non può stare oltre e, grazie alla cenere di tabacco che disperde nell’aria, la trovo per le strade che ancora fugge a passo svelto. Eppure io continuo a sentire l’ambra. L’ambra tutto intorno e dritto in petto: «…Ma quella sera mi hai detto scendiamo o ti amo?».

Allungo un braccio ai suoi capelli pieni zeppi di aria marina, cerco di afferrarli e quando si volta indietro mi accorgo che sto continuando a cercarla come un coglione, anche se è già mia, qui, anche se da qui non si esce. Perché ti dici tua pure se non ci credi? Ma sei proprio sicura che poi non torni?

Fu lei che mi trovò, con lo sguardo e poi con tutto il resto appresso. Dopo un po’ lo trovai ingiusto perché intanto, lei, non si era mai fatta trovare sul serio. Sì, andò così. Perciò disincontrarsi è stato naturale, anche perché più ti scoprivo più tu diventavi me; non so che pensavo, non so che cercavo. Tu invece cosa vai cercando ragazzina senza fine? Perché io lo so che non mi hai lasciato andare ancora. Dimmelo, perché io per queste strade ti ho appena presa. Perché da qui non si esce. Ti ho quasi presa, quindi dimmi: dove vai a fari accesi? Dove resti quando li spegni?

Trovata! Ma si rivolta troppo presto che non capisco se sta ridendo o sta piangendo e allora scavalca il cancelletto, poi sale sale, come nuda, come fumo, a raggiungere il posto che ci ha messi al mondo. Io quasi intuisco che ho origine in lei e la seguo, ma poi realizzo che sono io che, ad ogni passo, la genero, intera. Scavalco e salgo, salgo e non so più dove finisco. Dove finisce tutto questo.

Penso all’auto, l’ho lasciata aperta, dove l’ho lasciata? Ma che mi importa, non era la mia. Dove mi stai lasciando, piuttosto? Quella cazzo di volta mi hai detto scendiamo? O mi hai detto ti amo. Non la vedo più. La barba mi prude, ho la faccia screpolata, quasi a pezzi. Questa è la terrazza di Ale, dev’esserlo per forza, perché quella crepa gigantesca nel muro la facemmo io e lui alla sua festa dei quattordici anni. Come mai mi hai portato qui? Stavolta mi sente, anche se niente ho detto, e torna ad abbracciarmi da dietro appoggiandomi il mento sulla spalla, lei come una giacca o un mantello. E il mio bambino si acquieta, insieme ad ogni muscolo, insieme a tutto questo.

Mi tiene così, con la schiena appoggiata al suo seno, che non sembra tenermi ma tenersi, per tutto il tempo del riposo delle terrazze, che dopo la rinfrescata della notte tornano ad essere invase dal fuoco basso e rivelatore del tramonto. Infatti non è l’alba, è già tramonto: ma da quant’è che stiamo così?

C’è troppa meraviglia dentro ‘sto buio.

Allora mi svincolo perché quel viso assetato alle mie spalle mi chiama e mi aspetta, intenzionato a non farsi portare dal vento che c’è qui su, a mettere radici nei miei occhi perché solo, lì sotto nella folla bagnata, non vuole starci. E non mi ero accorto che per la terrazza si fosse cambiata, che le sue gambe fossero ancora più lunghe e che si prendessero tutta l’aria, riversata su questo pezzo qua di terra domestica, attraverso lo spacco di un vestito da sera che scopre anche la schiena, che è la tua grazia.

«Enea, tu non cercavi me; tu, Narciso, cercavi te» abbandonandosi più volte lo ripete, più che a me forse a sé, mentre io le conto le vertebre con un dito, da sotto i capelli sbocciati in riccioli salati, e così la accordo, su e giù per i microcrateri della sua pelle spiumata che s’è irruvidita tutta insieme, giù e su; su e giù per altri tramonti che si mangiano altre mille albe perché seccati di stare in attesa.

Stufa dell’attesa anche lei – lei dea dell’attesa – si scioglie da me e si mette a ballare facendo ondeggiare le braccia abbronzate verso l’alba già scomparsa per una Luna di Luglio che è qui, che sta entrando nel suo tempio, che non può rimandare. Ma Cecilia vuole ancora il contatto e intanto la venera istintivamente. Poi mi cerca, sempre d’istinto, e mi circonda, mi stordisce lieve, si stordisce ancora più lieve.

«Da dove torni bambina?» le chiedo io sottovoce senza volerlo sapere, mentre la rivedo completamente, quasi solo ora me ne accorgo, stagliata nel mare come sfondo: lei che è la città, che si prende tutto, che non sa lasciare andare, slegarsi e legare, lei che fa fatica, lei che ha sempre il sale in bocca.

Facciamo l’amore, l’abbiamo già fatto? Perché io, non lo so, mi sento così bene. Dice che mi vuole e i caldi raggi bassi la attraversano appieno che mi appare senza scampo, in un angolo di questo universo, con davanti il mio corpo che uso intero per tenerla qui dove ancora resta.

«Ancora resti», mi parla quasi senza voce mentre le ciglia le si allungano germogliando ogni volta che sbatte gli occhi, un po’ infastidita dalla luce ma ferma a tenerli irrevocabilmente su di me e a spalancarmeli in fiore.

Le consegno le mie labbra che trovano le sue come si trova un narciso, mi provocano narcosi, dolce annientamento, mentre anche il resto del suo corpo si avvia alla resa sull’orlo di questa terrazza bruciata che ci ha tenuti per una notte durata quanto un giorno. Prosciugandosi, le si arrendono prima i capelli e rimane solo il sale; poi il collo che si inclina lasciandosi cadere, infine la sua mano debole che scivola sulla mia barba aggrappandosi fino all’ultimo attimo di sole.

Ma le labbra no, le sue labbra non rinunciano perché sanno, hanno sempre saputo, sanno di vino scuro; così mi bacia e trema. Io la scaldo ma lei brucia. Così mi bacia e brucia e trema, e suda fino a risalire con tutta la pelle. Con tutta la mia pelle. Quanto più lei ricorda io più dimentico, è faticoso. Ma loro sanno, sanno di vino. Perciò mi bacia e brucia e trema, e suda e risale, e quindi mi morde prima che lo faccia io.

Poi mi sveglio, ma io non dormo più da mesi, e rientro che Ale mi ha lasciato qui fuori solo con un calice quasi asciutto e col tabacco, che per metà il vento ha già disperso. Ma prima mi avvolgo una sigaretta e portandomela alle labbra mi accorgo che sanguino. Allora mi attraverso la barba e poi tutta la faccia con entrambe le mani e stanco, sfinito, sospiro, lo ammetto: ti strappo narciso che sa di vino, vino scuro; io ti strappo e tu ancora resti.

ANNARITA GENOVA
ANNARITA GENOVAauthor & founder
Mi occupo di pubblicità e giornalismo e penso che, tra tutte le parole che esistono, solo una viene con me. Me la porto al mare.
«Senza manco ‘o tiempo ‘e ce fá capí».
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